Se da un lato questa Pandemia ha stravolto
consolidate abitudini delle nostre vite, dall’altro per me (ma come me per
molte altre persone) non ha cambiato molto. Mi riferisco nello specifico alla
vita professionale di chi lavora nel mondo del digitale, fatto di email,
slacks, video-call, remote working etc. Qui a New York migliaia di
offici ed interi Building, si sono svuotati evidenziando a tutti come sia
possibile ripensare non solo il modo e gli spazi in cui lavoriamo, ma anche
come viviamo. Molti stanno riscoprendo valori e aspetti della nostra vita e
sfera socio-affettiva, passati un po’ in secondo piano per via della routine
frenetica e del “perché cosi fan tutti”. Molti altri hanno riscoperto il valore
delle comunità come i ristoratori della grande mela, dove la proprio clientela
grazie alla tecnologia, li sostiene con donazioni per superare la complicata
situazione.
Questa non è solo stata la prima grande Pandemia
del millennio ma anche la prima Infodemia della storia, dove le
informazioni si sono sparse più velocemente della comprensione della situazione
stessa (nel bene e nel male).
Ma dobbiamo guardare al domani con ottimismo,
abbiamo difronte a noi un opportunità unica! Un reset di molte cose in cui
ognuno può riconsiderare tutto e ricominciare qualcosa di nuovo. Non dobbiamo
perdere questa opportunità perché quello sì, sarebbe un vero danno.
Cosa cambierà nella nostra vita? Non credo nulla che non stesse già cambiando, ma questo momento
funzionerà da acceleratore al cambiamento. Sempre più stiamo creando una nuova
civiltà, con nuove dinamiche socio-economiche, dove il valore non viene solo
prodotto dalla capacità di produrre ma anche dal modo in cui orchestriamo e
facciamo le cose. Più sostenibilità, più inclusione & etica, più sicurezza
(fisica e mentale) e Social Good, in una società che passa dal “Age of I”
al “Age of We”, cosi come la contro-cultura degli anni ’60 aveva già intuito
ed anticipato.
Mirco Pasqualini, Stategic & Innovation Design di Rovigo, a Woodstock (New York)
Caro
Roberto che tempi bui! Certo usciremo a riveder le stelle. Sul quando
non mi pronuncio, quindi parliamo piuttosto del “come ne usciremo?”.
Io sono un fisico e quindi sono abituato a ragionare sui numeri. Mi piacerebbe parlare un po’ con i numeri per cercare di rispondere alla domanda.
C’è un paese che è stato colpito più o meno contemporaneamente a noi dal virus e a cui tutti guardiamo con stupore e forse, diciamolo, un po’ di invidia. È la Corea del Sud. Quando ll’Italia era già in lockdown ed i morti erano già oltre 1000, in Corea solo ristrette zone del paese erano in quarantena ed i morti erano meno di 70. In molti hanno analizzato il fenomeno e individuato di fatto due cause: un estesa campagna di test (oltre 222mila tamponi contro i circa 73mila italiani, all’epoca) ed un capillare controllo sociale tramite un’invasiva app sui cellulari. Di quest’ultimo punto e della pericolosissima sottovalutazione delle limitazioni alla privacy ed alle libertà personali cui si va incontro nei periodi di crisi, si potrebbe discutere a lungo. Basti pensare che alcune settimane fa negli USA sono stati reiterati dalla Camera degli Stati Uniti alcuni provvedimenti “temporanei” di limitazione dei diritti civili approvati in fretta e furia dopo l’11 settembre. Ma questa è un’altra storia….. e magari ne parliamo un’altra volta.
Torniamo al virus e ai tamponi. Perché la Corea ne ha potuti fare così tanti? Perché, dopo la crisi seguita alla SARS che li aveva colti impreparati, e nonostante l’esiguità dei morti di allora, la Corea ha studiato e messo a punto un sistema ed una metodologia avanzata di test che gli ha permesso di effettuare e valutare tamponi con grandissima rapidità ed efficacia.
Il
tutto (sia l’analisi e la gestione dei risultati dei test che la limitazione
agli spostamenti ed alle libertà personali) condito con un massiccio uso di
tecnologie informatiche avanzate basate sull’intelligenza artificiale.
Come è stato possibile tutto questo e che lezione possiamo trarne per il nostro futuro?
Veniamo
ai numeri di cui parlavamo prima e vedremo che la spiegazione ci sembrerà più chiara.
Nel
1965 la Corea del Sud aveva un reddito per abitante pari al 12 % di quello
degli USA, nel 2010 era salito al 65 % di quello americano.
Con una popolazione di circa l’80 % ed un PIL di circa il 60 % di quello britannico, la Corea del Sud al 2015 investiva oltre una volta e mezzo in Ricerca & Sviluppo della vecchia signora del Commonwealth.
La
Corea del Sud è il paese al mondo con la più alta percentuale di laureati. Nel
2015 quasi il 70 % dei coreani tra i 25 ed i 34 anni aveva una formazione di
terzo livello. In Italia non si raggiunge il 20 %.
In
piena crisi economica (2008-2009) il programma delle Nazioni Unite per
l’Ambiente (Unep) ha chiesto ai paesi più sviluppati di rilanciare la crescita
investendo nella “green economy”. La Corea del Sud ha investito 60 miliardi di dollari nel
progetto (il 5 % del PIL), l’intera Unione Europea 23 miliardi (pari allo 0.2 %
del PIL).
E
guardando a livello continentale la situazione non migliora (per noi…). Nel
2010 gli investimenti europei in R&S erano pari al 24,9 % del totale
mondiale, nel 2014 sono scesi al 21.5, nel 2015 al 21.3 e nel 2016 al 21 % con
un evidente andamento a decrescere. In termini assoluti l’Europa spendeva, nel
2015, 401.1 miliardi di dollari contro i
776 dell’Asia (pari al 41.2 % del totale mondiale). L’obiettivo di Lisbona 2002
era di arrivare ad investire, entro il 2010, almeno il 3 % della ricchezza in R&S
per arrestare l’evidente declino scientifico e culturale del nostro continente.
Di fatto, al 2010 la percentuale era scesa dal 1.9 al 1.6 %.
L’Italia
ha 3,4 ricercatori ogni 1000 lavoratori, la Germania 7,2 e la Francia 8,2 (il
Giappone 11).
Non credo che servano molti commenti. E’ da queste crude cifre che si deve ripartire. Sono momenti come questi che ci devono far capire cosa è importante per un paese. Certo i legami sociali, la solidarietà, la partecipazione sono fondamentali. Ma la ricerca scientifica, lo sviluppo a lungo termine di un paese non si può basare sulle donazioni fatte sull’onda dell’emozione. Le grandi sfide del futuro si vinceranno con la scienza e l’innovazione. Ci vuole visione, coraggio, pianificazione.
Quindi è vero, ce la possiamo fare, ce la faremo, ma per farcela bisogna uscire da questa tremenda crisi guardando lontano e pianificando gli investimenti necessari non solo per l’immediato. Consapevoli e orgogliosi del nostro grande passato ma altrettanto consapevoli che è al futuro che dobbiamo puntare avendo l’umiltà di guardare e, se serve, copiare da paesi più giovani e dinamici di noi.
Parlando della nostra grande storia…… ho finito da poco di leggere “Enrico Fermi, l’ultimo uomo che sapeva tutto” (D.N. Schwartz) la biografia di un personaggio complesso e per certi versi controverso, ma indubitabilmente uno dei più grandi fisici dell’era moderna. Enrico Fermi ha lavorato in un periodo di enorme crisi (il fascismo e la seconda guerra mondiale), ha rivitalizzato la fisica nel nostro paese prima di emigrare negli USA, ha creato una scuola che ha plasmato la fisica statunitense ed anche italiana per anni. Oltre che un grandissimo scienziato Fermi è stato un fantastico maestro, un didatta inarrivabile a detta di tutti quelli che lo hanno conosciuto.
Un aneddoto…. Nel 1953 Freeman Dyson, uno dei più importanti fisici statunitensi del secolo scorso, allora trentenne, si reca da Fermi a Chicago per esporgli i suoi risultati su un problema avanzato di meccanica quantistica (l’interazione pione-protone). Dopo averlo ascoltato Fermi gli dice “Ci sono due modi per fare i calcoli in fisica teorica. Un modo,…, l’altro modo….. Lei non ha nessuno dei due.” Alle rimostranze di Dyson, Fermi argomenta la sua risposta e Dyson torna alla Cornell University consapevole che il suo lavoro di diversi anni non aveva superato il test di Fermi. Nel 2004 Dyson scrisse in un articolo su Nature: “E cosi fu l’intuito di Fermi, e non qualche discrepanza tra teoria ed esperimenti, a sbloccare me e i miei studenti da un vicolo cieco”.
Ecco, ora sembra che l’Italia si sia infilata in un vicolo cieco. Per il futuro servono guide come Fermi che abbiano il coraggio di indicare strade e di dire le cose come stanno e giovani che abbiano passione, competenze e l’umiltà di accettare un giudizio anche severo ma giusto e illuminato.
Il Coronavirus ha provocato un trauma collettivo che in qualche modo ha dato luogo ad una mutazione antropologica, perchè comunque andrà a finire, ne usciremo diversi.
Qualcuno ha definito questo evento “un Cigno Viola”, parafrasando la metafora di Seth Godin, sulla Mucca Viola, perchè costituisce un’occasione per re-immaginare il nostro mondo e dare una direzione al futuro che desideriamo.
Siamo stati per troppo tempo ancorati alle nostre certezze, mentre domani accetteremo con più facilità di essere fragili e acquisiremo la consapevolezza che l’unica possibilità che abbiamo è quella di dubitare e continuare ad immaginare nuove domande.
In un mondo sempre più complesso è incerto, dovremo dotarci di nuovi strumenti di pensiero e valorizzeremo maggiormente la nostra capacità di immaginare.
Per fare cose nuove o per fare le stesse cose diversamente, dovremmo imparare a pensare in modo differente. Operare con una visione orientata al futuro, ci porterà a guardare la realtà con gli occhi del futuro, ci permetterà di imparare ad abbracciare l’incertezza e a valorizzare la diversità che cominceremo a considerare un elemento di ricchezza e non più un problema.
Il Covid19 ci ha catapultato nell’Era dell’Immaginazione.
Nei giorni in cui la vita dell’Italia sotto gli occhi del mondo è
sconvolta da un’emergenza sanitaria senza precedenti, è il momento di
pensare a come saremo domani. Perchè questo drastico cambiamento della vita sociale sta già plasmando l’Italia del futuro. E dopo il virus, assieme al loro Paese anche gli italiani saranno diversi.
Spesso ispirati da eventi traumatici come guerre, cataclismi,
migrazioni di massa, i grandi cambiamenti sociali e culturali procedono
per strappi. Noi stiamo vivendo uno di questi momenti: costretti ad
abbandonare consuetudini, a ripensare noi stessi, ne usciremo con una
consapevolezza, una percezione della realtà, una visione del mondo
diversi. Il cambiamento non sarà indolore ma rappresenta pure una
gigantesca opportunità, per vedere finalmente dissolversi false
certezze, cattive abitudini e modi di pensare inadeguati, che hanno
frenato un Paese bellissimo ma troppo spesso ripiegato su se stesso e
incapace di valorizzare il proprio straordinario passato, i suoi
migliori talenti per essere protagonista del futuro. Cultura e
creatività sono il patrimonio oggi più importante, per interpretare la complessità e inventare il futuro.
Un futuro che è dietro l’angolo. E’ il momento di immaginarlo assieme. Con fiducia e ottimismo.
#italianidopoilvirus è l’hashtag con cui raccoglieremo riflessioni, idee e ispirazione sull’Italia di domani. Sicuri che #neusciremomigliori.
Ecco il primo contributo.
All’inizio del secolo scorso un terribile terremoto seguito da un incendio distrusse quella che è oggi una delle città più ricche del mondo, culla mondiale dell’innovazione. Il via a una ricostruzione miracolosa di quella città, San Francisco, lo diede il figlio di immigrati italiani, capace di “vedere il futuro”, con scelte così fuori dagli schemi da esser considerate semplicemente folli e suicide dai suoi colleghi.
Piccolo banchiere, dalle macerie della Bank of Italy che aveva da poco fondato per servire gli immigrati italiani, Amadeo Peter Giannini
estrasse un sacco con due milioni di dollari mettendoli a disposizione
di persone che non avevano più nulla, nessuna garanzia materiale da
offrire se non l’energia per ripartire. Prestiti offerti per strada su
un tavolaccio posato su due barili, sulla base di “una firma e una
faccia”.
Quella scommessa sugli altri, inconcepibile per gli uomini d’affari del tempo, fu azzardata ma vincente e trasformò un immane disastro in grande opportunità, dando il via alla rapida rinascita di San Francisco, dove la banca di Giannini divenne presto la più grande del mondo: Bank of America.
Piccolo banchiere, dalle macerie della Bank of Italy che aveva da poco fondato per servire gli immigrati italiani, Amadeo Peter Giannini
estrasse un sacco con due milioni di dollari mettendoli a disposizione
di persone che non avevano più nulla, nessuna garanzia materiale da
offrire se non l’energia per ripartire. Prestiti offerti per strada su
un tavolaccio posato su due barili, sulla base di “una firma e una
faccia”.
Quella scommessa sugli altri, inconcepibile per gli uomini d’affari del tempo, fu azzardata ma vincente e trasformò un immane disastro in grande opportunità, dando il via alla rapida rinascita di San Francisco, dove la banca di Giannini divenne presto la più grande del mondo: Bank of America.
In una città in cui assieme agli edifici era crollata pure
l’illusione di una crescita vertiginosa e infinita sulla scia della
Corsa all’Oro, la rinascita fu ispirata dal coraggio di una persona
capace di rischiare guardando agli altri con fiducia e in modo nuovo.
Che diede un gigantesco contributo al progresso civile e culturale
continuando a scommettere sugli altri, finanziando tra gli altri il un
giovane cineasta per un film “di un certo successo” (Charlie Chaplin in “Il Monello“), l’autore di un’opera di altissima tecnologia che aveva esaurito i fondi (Walt Disney con “Biancaneve e i sette nani“) , la costruzione durante la Grande Depressione di un gioiello dell’ingegneria come il Golden Gate Bridge, due giovani neolaureati di Stanford che con la loro azienda gettarono le basi di Silicon Valley (Bill Hewlett e David Packard)
Oggi che la nostra quotidianità è sconvolta dall’emergenza CoronaVirus, quella storia ha un significato particolare. Perché mentre
intuiamo che le conseguenze economiche della crisi sanitaria sono
devastanti, rischiamo di trascurarne un aspetto cruciale: i suoi
risvolti sociali e culturali, con conseguenze ancora più profonde sul
nostro futuro. Che potranno essere anche benefiche, perché gli
eventi traumatici, persino le tragedie e le guerre, provocano shock che
costringono a ragionare e guardare le cose con occhi nuovi. E oggi forse
stiamo assistendo pure al crollo, come macerie da rimuovere, di
stereotipi e cattive abitudini di cui sinora non siamo riusciti a
liberarci.
Quella scommessa sugli altri, inconcepibile per gli uomini d’affari del tempo, fu azzardata ma vincente e trasformò un immane disastro in grande opportunità, dando il via alla rapida rinascita di San Francisco, dove la banca di Giannini divenne presto la più grande del mondo: Bank of America.
Quello che il CoronaVirus spazzerà via senza pietà sono i
pensieri senza respiro di chi è contro la scienza, le opinioni
manipolatorie, smentite dalla misura dei fatti, il dilettantismo che
uccide le persone, non solo le competenze, le fake news che per la prima
volta vengono battute dalla velocità del vero, la volontà del popolo a
cui nessuno affiderà la propria salute… E quando finirà, perché finirà,
nulla sarà davvero più come prima. E ci ritroveremo in un mondo più
consapevole, responsabile e felice di esserne uscito. Come in un
dopoguerra senza guerra: quei momenti unici in cui si costruisce davvero
il futuro”, dice Francesco Morace, sociologo fondatore del Future Concept Lab.
Certo dobbiamo fare i conti pure con commenti sconcertanti di
intellettuali “rallegrati” dalla comodità di muoversi in strade o treni
semideserti, con giudizi scontati di “apocalittici” che considerano
l’epidemia una punizione divina meritata dall’uomo: accadeva nelle
pestilenze dei secoli scorsi, accadde pure col terremoto del 1906 a San
Francisco, che per ricchezza generata dalla Corsa all’Oro era città del
vizio, della violenza, della corruzione. Invece siamo davvero all’alba
di un’era nuova.
Eravamo quasi rassegnati alla lenta decadenza delle democrazie
occidentali come la nostra e delle loro elite, sempre più fragili e meno
funzionali, in tempi di populismo e strapotere dei social, rispetto a
dittature e democrazie autoritarie. L’epidemia ci ha confermato invece
che siamo parte di un Villaggio Globale in cui la società aperta è un
valore, tentare di isolarsi è un’illusione, cercare di occultare, di
opporsi alla trasparenza ha conseguenze devastanti a livello planetario.
All’improvviso, invocare muri e barriere per proteggersi dagli
“altri”, ci fa scoprire… che gli “altri” discriminati da muri e barriere
possiamo essere noi, come ha scritto in un’illuminante riflessione Marco Tarquinio, direttore di L’Avvenire.
“Questo shock del CoronaVirus ha avuto come principale effetto
positivo quello di ripensare il nostro atteggiamento nei confronti
dell’attuale organizzazione sociale”, osserva Davide Bennato, docente di Sociologia dei Media digitali.
“Consideravamo ovvio procedere verso una società maggiormente
individualizzata. Ci sembravano ‘naturali’ dal punto di vista economico
un lavoro poco stabile, un welfare con limitate tutele dello Stato
sociale sostituite da servizi a pagamento, una politica di ‘tutti contro
tutti’ come espressione della contemporaneità. ‘Naturale’ considerare
le professioni un modo di accumulare capitale, gli esperti un retaggio
di sistemi di conoscenza superati, gli ‘altri’ come un
ostacolo. L’epidemia ci ha svelato invece che la logica della stabilità
lavorativa è importante (ad esempio per ricercatori e infermieri
precari), che il welfare è una conquista da cui non recedere (sanità
pubblica), che nella politica il dialogo democratico è necessario (la
dialettica governo/opposizione), che la professionalità ha un’importante
componente vocazionale (il sacrificio dei medici di Codogno), che gli
esperti hanno un ruolo chiave di orientamento delle strategie (medici,
virologi, epidemiologi). Il virus passerà ma la rivoluzione culturale
che avrà innescato è il necessario ripensamento delle forme di vita
civile che non potranno più essere ridotte a un individualismo rampante”.
E’ proprio questo radicale ripensamento del rapporto con gli altri il
cambiamento più profondo, indispensabile in un Paese in cui troppi
ancora praticano lo sciagurato sport del realizzarsi nella
conflittualità, nel far perdere gli altri, quella che ho chiamato Sindrome del Palio di Siena.
Pensiamo al significato profondo delle drastiche misure preventive
adottate: richiedere un sacrificio collettivo ispirato non a proteggere
dal pericolo i singoli, in prevalenza individui a basso rischio, ma la
cittadinanza nel suo insieme (e il suo sistema sanitario, che tutela i
più deboli) ci obbliga a comprendere che i problemi si affrontano
sentendoci parte di una collettività, in cui la nostra sorte non può
prescindere da quella di chi ci sta accanto, rinunciando quindi
all’individualismo egoista.
E’ una sfida che riguarda le leadership in politica e pure nell’imprenditoria, che devono saper gestire un’emergenza, fronteggiare incognite e contemporaneamente comunicare, abbinando appropriatamente a misure di precauzione messaggi rassicuranti e lungimiranti. Per questo, la crisi può essere anche un’opportunità, per rinnovarsi.
“I sistemi chiusi implodono e creano una conflittualità
autodistruttiva. Anche le organizzazioni che non adottano un approccio
aperto rischiano di richiudersi in se stesse e di replicare schemi non
più adatti”, osserva Stefano Schiavo formatore e consulente nell’ambito del marketing strategico, innovazione e organizzazione aziendale.
“Ciò che ha permesso alle società contemporanee di prosperare e
superare le tante sfide degli ultimi secoli è l’approccio scientifico:
l’idea di ‘non sapere’ ha superato quella dello studio dei ‘testi sacri’
come fonte della conoscenza. Sapersi avvantaggiare dei momenti di
difficoltà, dell’incertezza, delle perturbazioni non solo per resistere,
ma per migliorare: è il concetto dell’antifragilità reso popolare da
Nassim Nicholas Taleb, autore del celebre ‘Il cigno nero’”.
Una svolta, per le elite dunque ma anche per noi, nel rapporto con
chi ci rappresenta. Perchè in un’emergenza che riguarda la salute,
malgrado il caos di informazioni su media e social non ci si affida al
più astuto nel lanciare slogan online, a chi urla più forte, né agli
“onesti inesperti”: si ascoltano i più competenti.
E’ la fiducia nella scienza, nella conoscenza, il vero antidoto alle paure, come ha sottolineato il presidente Mattarella. Premiare
la competenza, cosa che in Italia purtroppo non è stata sinora la
regola, è il modo migliore, per un Paese come per un’azienda, per
guardar lontano e abbattere gli ostacoli che frenano il talento del
proprio patrimonio più prezioso: le risorse umane.
Quante parole chiave con la C, per riflettere e trovar forza in tempi di drammatica emergenza per il Coronavirus.
Sono parole chiave che si ritrovano in questi dieci videoclip, da capolavori del cinema a iniziative di solidarietà fra arte e scienza, filo conduttore la musica e l’empatia, per ispirare e infondere coraggio. Perchè #neusciremomigliori.
10 – Beethoven, Inno alla Gioia, flash mob in piazza a Vicenza.
Beethoven in un flash mob nella città del Palladio organizzata da AIM Vicenza.
Comunità, Condivisione.
9 – Beethoven al pianoforte per un elefante cieco
In Thailandia il pianista Paul Barton ha dedicato diversi pezzi di Beethoven al pianoforte a Romsai, elefante cieco. Che sembra apprezzare.
Creatività, Compassione.
8 – Beethoven al piano con i pendolari
Newcastle: Sonata Al Chiaro di luna di Beethoven al pianoforte coinvolgendo alla tastiera i pendolari della stazione degli autobus.
Condivisione, Creatività.
7 – “Halllelujah” con 1500 coristi
La celebre canzone di Leonard Cohen cantata a Toronto da Rufus Wainwright, con un coro di 1500 persone (Video del progetto Choir! Choir! Choir!)
Creatività, Comunità, Condivisione.
6 – “With a Little Help From My Friends” lungo la frontiera
La canzone dei Beatles cantata insieme, in inglese e spagnolo, da due cori a San Diego e Tijuana, di qua e di là del confine tra USA e Messico (Video del progetto Choir! Choir! Choir!).
Comunità, Condivisione, Creatività.
5 – “Domani” di Mauro Pagani, “Artisti Uniti per l’Abruzzo” dopo il terremoto 2009.
“E domani domani, domani chissà, chissà se si passa il confine…” Ligabue, Morandi, Giorgia, Battiato, Ranieri, Jovanotti, Laura Pausini, Zucchero… e tanti altri. A un anno dalla registrazione il video aveva raccolto oltre un milione di euro per i terremotati di Abruzzo.
Comunità, Compassione, Creatività.
4 – “Stand by Me” nel montaggio di “Playing for Change”
“Non importa chi sei, non importa dove vai nella vita. A un certo punto avrai bisogno di qualcuno che stia dalla tua parte”. “Stand by Me” (di Ben E. King, Jerry Leiber e Mike Stoller) in un montaggio fra musicisti di tutto il mondo, del bellissimo progetto “Playing for Change”.
Comunità, Condivisione, Creatività.
3 – Finale di “Orizzonti di Gloria” (Stanley Kubrick, 1957).
Prima guerra mondiale, una ragazza tedesca terrorizzata, una platea di soldati francesi che la umiliano. Ma quando lei inizia cantare, loro capiscono (di essere tutti dalla stessa parte) …. e il loro comandante, Kirk Douglas, pure. Primi piani da brividi, capolavoro assoluto. Stanley Kubrick, 1957.
Compassione, Condivisione, Consapevolezza.
2 – Evo-Devo (biologia in un videoclip parodia di Despacito)
Famiglia di musicisti, madre direttrice di un coro in cui lui ha esordito a tre anni, Tim Blais canadese del Quebec ha una laurea in Scienze, un Master in Fisica e un talento spaventoso per la divulgazione scientifica in musica, col suo progetto Acapellascience, con video che richiedono centinaia di ore di preparazione.
La parodia di Despacito per spiegare al grande pubblico lo sviluppo evolutivo della biologia (Evo-Devo) ha avuto oltre tre milioni di visualizzazioni.
Conoscenza, Creatività, Condivisione.
1 – Il finale di “Luci della Città” (Charlie Chaplin 1931, tra i film più belli della storia del cinema).
Guarita dalla cecità la bella fioraia non lavora più in strada e sogna un giorno di incontrare il benefattore, lei non l’ha mai visto, che immagina essere un miliardario e che le ha permesso oltre all’operazione agli occhi pure di aprire un bel negozio con vetrina. Quando assiste a una buffa scena per strada, protagonista un vagabondo appena uscito di prigione, gli offre un fiore e una moneta. E solo quando gli tocca la mano capisce che è lui, il suo benefattore. Consapevolezza (e lacrime anche alla millesima volte che si rivede…). Un lavoro infinito e costosissimo, di perfezionismo maniacale di Chaplin. Il risultato: capolavoro immortale.
La paura del contagio e dei contatti, l’ossessione per le medicine,
l’obbligo di stare in coda, la vita da reclusi, costretti pure ad
allenasi in casa. E infine l’ottimismo a tutti i costi…
Dieci spezzoni (quasi) tutti adatti anche ai bambini. Per ridere delle nostre ossessioni quotidiane in tempi di epidemia, fra spot e scene di film con grandi protagonisti: da Totò a Charlie Chaplin, da Buster Keaton, ai fratelli Marx, da Carlo Verdone a Peter Sellers. Perchè tener alto il morale è uno dei migliori antidoti…
Bocca chiusa – Le esalazioni disastrose… di un piccolo drago, spot natalizio (John Lewis Waitrose)
Le gioie della coda 1 – La prima scena di The Goat (1921 versione colorata) Buster Keaton
Le gioie della coda 2 – Furbizia preistorica. Spot geniale (Service Coupe-File)
Tocco e ritocco – Totò e l’onorevole Trombetta (Totò a colori 1952, con Mario Castellani)
L’ossessione per le medicine – (2015 montaggio creativo) Carlo Verdone
Evitare gli affollamenti – Nella cabina del transatlantico, (1935 A Night at the Opera) Marx Brothers
Le gioie dell’isolamento –Charlie Chaplin cucina una scarpa, (La Febbre dell’Oro 1925)
Ottimisti anche nei momenti peggiori. Monty Python:
“Always Look at the Bright Side of Life”, guarda sempre al lato
positivo della vita (finale del dissacrante “Brian di Nazareth” 1979).
Paura terribile del contagio. Totò e Aldo Fabrizi, Guardie e ladri (la scena a 1’40” del trailer)
Allenarsi in casa. (La Pantera Rosa colpisce ancora 1975), Peter Sellers ispettore Clouseau e Burt Kwouk (Cato)
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