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Stiamo riscoprendo Radici e Ali: cosa conservare e cosa migliorare
(Marcello, Charleston, USA)

Questa emergenza ci sta insegnando di cosa far tesoro della nostra esperienza passata e cosa invece possiamo cambiare e migliorare. Marcello Forconi originario di Bologna dopo il postdottorato all’Università di Stanford è oggi Associate Professor di Biochimica e ricercatore al College of Charleston, South Carolina (USA).

Marcello Forconi nell’archivio Italiani di Frontiera

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Fare, per gli altri. Usiamo questo tempo per osare e provare
(Stefio, Londra)

Siamo in una fase di profondo e rapido cambiamento, un periodo in cui molti settori in difficoltá si trovano costretti a innovare velocemente. E noi Italiani – come ampiamente documentato da Roberto  e Italiani di Frontiera – siamo estremamente bravi a trasformare ed innovare.

Sono un data scientist, data journalist e coder, ma prima di tutto mi occupo di creatività in ambito digitale. Mi piace creare, costruire e testare idee e prodotti digitali innovativi.

Vivo a Londra. Ho lavorato da remoto per parecchi anni, nel contesto di grandi e piccole startup, e nonostante mi manchino la famiglia, gli amici e l’Italia, sento che qui, nel mio appartamento-ufficio di Londra, non c’é spazio per la tristezza e l’apatia. 
E così, tra una chiamata con dei data scientists in Argentina per trovare una risposta alle sfide lanciate dalla Casa Bianca su come analzzare i dati sul Covid, e una chiamata con l’Italia per il lancio di una nuova app sviluppata pro-bono a tempo di record, mi piace sentirmi parte di un grande team che sta mettendo i propri skills, qualsiasi essi siano, a servizio dell’emergenza. Perché ogni esperienza conta, e ogni opportunità che non cogliamo per fare, e soprattutto fare per gli altri, é un’occasione persa.

Ma come ne usciremo? Ricordiamo che oggi ci sono risorse digitali di ogni tipo per crescere ed esplorare nuovi interessi, quindi ritroviamo quella curiosità e spirito di iniziativa che ci contraddistingue ed impariamo cose nuove, buttiamoci in progetti anche folli, usiamo questo tempo per osare e provare. Cosí non perderemo mai, anzi ci divertiremo e ne usciremo migliori, piú consapevoli e anche piú capaci.

Stefano “Stefio” Ceccon, Data Scientist a Londra

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Fare, per gli altri. Usiamo questo tempo per osare e provare
(Stefio, Londra)

Siamo in una fase di profondo e rapido cambiamento, un periodo in cui molti settori in difficoltá si trovano costretti a innovare velocemente. E noi Italiani – come ampiamente documentato da Roberto  e Italiani di Frontiera – siamo estremamente bravi a trasformare ed innovare.

Sono un data scientist, data journalist e coder, ma prima di tutto mi occupo di creatività in ambito digitale. Mi piace creare, costruire e testare idee e prodotti digitali innovativi.

Vivo a Londra. Ho lavorato da remoto per parecchi anni, nel contesto di grandi e piccole startup, e nonostante mi manchino la famiglia, gli amici e l’Italia, sento che qui, nel mio appartamento-ufficio di Londra, non c’é spazio per la tristezza e l’apatia. 
E così, tra una chiamata con dei data scientists in Argentina per trovare una risposta alle sfide lanciate dalla Casa Bianca su come analzzare i dati sul Covid, e una chiamata con l’Italia per il lancio di una nuova app sviluppata pro-bono a tempo di record, mi piace sentirmi parte di un grande team che sta mettendo i propri skills, qualsiasi essi siano, a servizio dell’emergenza. Perché ogni esperienza conta, e ogni opportunità che non cogliamo per fare, e soprattutto fare per gli altri, é un’occasione persa.

Ma come ne usciremo? Ricordiamo che oggi ci sono risorse digitali di ogni tipo per crescere ed esplorare nuovi interessi, quindi ritroviamo quella curiosità e spirito di iniziativa che ci contraddistingue ed impariamo cose nuove, buttiamoci in progetti anche folli, usiamo questo tempo per osare e provare. Cosí non perderemo mai, anzi ci divertiremo e ne usciremo migliori, piú consapevoli e anche piú capaci.

Stefano “Stefio” Ceccon, Data Scientist a Londra

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Impariamo dai giovani a trasformare i limiti in opportunità
(Davide, Catania)

Questo shock del Coronavirus ha avuto come principale effetto positivo quello di ripensare il nostro atteggiamento nei confronti dell’attuale organizzazione sociale. Consideravamo ovvio procedere verso una società maggiormente individualizzata. Ci sembravano ‘naturali’ dal punto di vista economico un lavoro poco stabile, un welfare con limitate tutele dello Stato sociale sostituite da servizi a pagamento, una politica di ‘tutti contro tutti’ come espressione della contemporaneità. ‘Naturale’ considerare le professioni un modo di accumulare capitale, gli esperti un retaggio di sistemi di conoscenza superati, gli ‘altri’ come un ostacolo. 

L’epidemia ci ha svelato invece che la logica della stabilità lavorativa è importante (ad esempio per ricercatori e infermieri precari), che il welfare è una conquista da cui non recedere (sanità pubblica), che nella politica il dialogo democratico è necessario (la dialettica governo/opposizione), che la professionalità ha un’importante componente vocazionale (il sacrificio dei medici di Codogno), che gli esperti hanno un ruolo chiave di orientamento delle strategie (medici, virologi, epidemiologi). Il virus passerà ma la rivoluzione culturale che avrà innescato è il necessario ripensamento delle forme di vita civile che non potranno più essere ridotte a un individualismo rampante.

Quanto a questo periodo di quarantena, questo è un ottimo banco di prova per la nostra società: io ho imparato moltissimo e questo bagaglio me lo porterò appresso, un modo diverso di approccio ai problemi che resterà alla fine dell’emergenza. Io ad esempio da genitore di una bambina di 10 anni è docente di ragazzi di oltre 20 ho imparato molto dai giovani, dalla loro straordinaria capacità di adattamento. Patiscono ovviamente la distanza dagli amici, il mancato contatto con le persone a cui vogliono bene ma non hanno avuto dubbi sull’utilizzo diverso di strumenti come chat, la chiamata collettiva su Whatsapp, quell’attività da bricoleur nella capacità di mettere insieme cose diverse e cercare di dargli una una forma trasformare in opportunità quelli che sono dei limiti. Adattarsi non vuol dire però farsi passare bene tutto quello che sta accadendo ma semplicemente valorizzare, trasformare in opportunità quelle che sono in questo momento dei palesi limiti relazionali. Quindi secondo me questo è sicuramente una un ottimo banco di prova di noi come società.

Davide Bennato è docente di Sociologia dei Media Digitali all’Università di Catania.

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Lavoro di squadra la chiave vincente
(Gianluca, Silicon Valley)

Sono un imprenditore che vive a San Francisco dagli anni 70. Sebbene questo non sia un momento facile, ogni cambiamento offre delle grandissime opportunità al paese ed alle sue persone. Negli Stati Uniti, durante le ultime due settimane, abbiamo avuto una perdita di oltre 3 milioni di posti di lavoro, molti dei quali nel settore dell’ospitalità. Allo stesso tempo ci sono enormi aperture di nuovi posti di lavoro nel mondo Farmaceutico, Logistico, Medicale e del Cibo.

Un imprenditore vede sempre il bicchiere mezzo pieno e invece di piangere sul latte versato si focalizza sulle opportunità davanti a sé. Il mondo sta cambiando mentre buona parte dell’Europa sembra rimanere attaccata ad un tipo di vita che non esiste più. Questa potrebbe essere un’occasione per accelerare tale cambiamento e permettere all’Europa di diventare più competitiva. La realtà è che viviamo in una economia globale dove si compete con tutti i paesi. In questo mondo, la sopravvivenza di un paese è legato ad un offerta che sia imbattibile (come l’Italia nel campo della moda, del cibo, del turismo, etc.). Cercare di restare in industrie che attraverso gli anni hanno perso la propria competitività non può essere una strategia vincente. Sicuramente non è facile poichè la generazione dei boomers (persone nate nel ventennio del dopo guerra) farà di tutto per ostacolare il cambiamento per restare ancorati alle vecchie tradizioni con cui si sentono a loro agio. La mentalità sembra essere legata a “cosa è meglio per me oggi” invece di “cosa è meglio per il futuro dell’Italia”. D’altronde, le cose facili non portano al cambiamento ma, più sono difficili e più grande sarà la ricompensa per chi ci è riuscito.

L’altra cosa da non dimenticare è l’importanza di avere qualità o competenze particolari, che ci contraddistinguono. L’industria dell’alta tecnologia, che è sempre alla ricerca di competenze, non ha rallentato un attimo nella sua crescita, anche durante questa crisi, e vede il momento difficile che stiamo attraversando, come un’opportunità per strappare le persone migliori alle aziende più deboli.

Cosa mi ha insegnato l’America durante questi anni? Che nulla ci è dovuto se non un giorno di paga per un giorno di lavoro. Tradotto in pratica, le tue competenze e la richiesta del mercato per esse, è l’unica cosa che conta per il mantenimento ed il miglioramento delle tue condizioni economiche. Non chiedere cosa l’America può fare per te ma cosa tu puoi fare per l’America (J.F. Kennedy) • Tra le migliori competenze ed il peggior mercato per esse, il mercato vince. In pratica, adattatevi ai cambiamenti oppure non ce la farete.

Il lavoro di team e la sua riuscita è la chiave. (We can hang together or separately, ovvero, Possiamo vincere insieme o venire impiccati uno per uno).

Mi auguro che i giovani Italiani riescano a cambiare un paese che ne ha veramente bisogno, invece di rimandare il problema al futuro con un continuo indebolimento dell’Italia.

Gianluca Rattazzi, nato ad Ascoli Piceno e vissuto a Roma, imprenditore e startupper a Silicon Valley

Gianluca Rattazzi nell’archivio Italiani di Frontiera

#italianidopoilvirus #neusciremomigliori.

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Non perdersi nel passato e riscoprire lentezza e intensità
(Roberto, Berlino)

E´come un tempo sospeso qui a Berlino, per Fernanda, mia moglie, e me. L’isolamento ci toglie l’obbligo di agire, di compiere delle scelte, sempre legate a dubbi, e quindi l’ansia. Si può vivere la solitudine, senza cadere in depressione, senza tristezza. Tutto è rinviato al dopo, a una data incerta. Si deve rimanere ottimisti. Ma, certamente, noi siamo privilegiati. Ci troviamo prigionieri in un appartamento accogliente, per molti altri, con bambini, o con anziani, la vita quotidiana è diventata una sfida. Ottimismo, pessimismo, ognuno reagisce alla sua maniera, non possiamo essere mai sicuri di noi stessi, e ci si dovrebbe astenere dai consigli. Ma penso ai giovani, e credo che per loro sia una situazione imprevista. Erano abituati a dare per scontato il loro modo di vivere. Io, e i miei coetanei, da giovani  dovevamo conquistare giorno dopo giorno la libertà di viaggiare, di fare esperienze altrove. conoscere gente diversa. Quando sarà possibile uscire e incontrare amici, o sconosciuti per una sera, per i giovani tutto avrà un altro sapore. Più intenso. E se avverrà, questi non saranno giorni perduti. E spero che chiusi in casa, oltre i contatti online, si sia riscoperta la lettura, come piacere o come salvezza.

Qualcuno avrà letto o riletto  Thomas Mann, “Der Zauberberg”, e la traduzione più giusta, non è quella vecchia “La montagna incantata”, ma la montagna magica. I personaggi di Mann vivono appunto in un tempo sospeso, costretti dalla malattia. Ma siamo alla vigilia della guerra, quella che segnò la fine di un vecchio mondo. Dopo, tutto era cambiato. E oggi tutti prevedono che  nulla sarà come prima, che saremo migliori. Migliori forse no, temo che sia un’illusione. Basterà cercare di essere diversi. Soprattutto noi italiani. Ci siamo trovati impreparati, più esposti, e abbiamo pagato un prezzo altissimo. Dopo, non perderemo la sfida se non ci perderemo nel passato. Quel che consideravano normale era sbagliato, ad esempio volare a New York per un weekend, andare in vacanza in inverno agli antipodi per riconquisitare l’estate. Si dovrebbe riscoprire il piacere della lentezza. Un tempo lento, e più intenso. 

Roberto Giardina giornalista e scrittore, storico corrispondente da Berlino

Fanpage

Investire sulla fiducia sull’esempio di Giannini. L’articolo su Fanpage

di Roberto Bonzio

Aprile 1906: un terribile terremoto seguito da un incendio distrugge una delle città più ricche del mondo, San Francisco, oggi culla mondiale dell’innovazione. A dare il via a una ricostruzione miracolosa della città è un banchiere figlio di immigrati italiani, capace di “vedere il futuro” investendo sugli altri, con scelte così fuori dagli schemi da esser considerate semplicemente folli e suicide dai suoi colleghi.
Piccolo banchiere, dalle macerie della Bank of Italy che aveva da poco fondato per servire gli immigrati italiani, Amadeo Peter Giannini  estrae un sacco con due milioni di dollari  mettendoli a disposizione di tutti, per strada su un tavolaccio posato su due barili, prestiti sulla base di “una firma e una faccia”, per persone che non hanno più nulla, nessuna garanzia materiale da offrire se non l’energia per ripartire. Quella scommessa sugli altri, inconcepibile per gli uomini d’affari del tempo, fu azzardata, ma vincente e trasformò un immane disastro in grande opportunità, dando il via alla rapida rinascita di San Francisco, dove la banca di Giannini divenne presto la più grande del mondo: Bank of America.
In una città giovanissima, in cui assieme agli edifici era crollata pure l’illusione di una crescita vertiginosa e infinita sulla scia della Corsa all’Oro, la rinascita fu ispirata dal coraggio di una persona capace di rischiare guardando agli altri con fiducia e in modo nuovo.

Oggi che la nostra quotidianità è sconvolta da settimane dal Coronavirus e il governo ha appena varato un decreto senza precedenti a sostegno della ripresa economica pensando al dopo emergenza, quella storia assume un significato particolare. Perché mentre siamo consapevoli che le conseguenze economiche della crisi sanitaria sono devastanti, rischiamo di trascurarne aspetti cruciali: i suoi risvolti culturali, persino psicologici, con ripercussioni ancora più profonde sul nostro futuro, che potrebbero anche essere anche positive.  Gli eventi traumatici, persino le tragedie e le guerre, provocano accelerazioni brutali nei cambiamenti, shock che costringono a ragionare e guardare le cose con occhi nuovi. Oggi forse stiamo assistendo pure al crollo, come macerie da rimuovere, di stereotipi e cattive abitudini di cui sinora non siamo riusciti a liberarci. Abbandonare la diffidenza, aver fiducia negli altri, nel nostro saper fare squadra anche dopo l’emergenza potrebbe essere la base di questo cambiamento: “Quello che il Coronavirus spazzerà via senza pietà sono i pensieri senza respiro di chi è contro la scienza, le opinioni manipolatorie, smentite dalla misura dei fatti, il dilettantismo che uccide le persone, non solo le competenze, le fake news che per la prima volta vengono battute dalla velocità del vero, la volontà del popolo a cui nessuno affiderà la propria salute… E quando finirà, perché finirà, nulla sarà davvero più come prima. E ci ritroveremo in un mondo più consapevole, responsabile e felice di esserne uscito. Come in un dopoguerra senza guerra: quei momenti unici in cui si costruisce davvero il futuro”, dice Francesco Morace, sociologo fondatore del Future Concept Lab.

In passato si consideravano le epidemie come “punizioni divine” meritate dall’uomo: accadeva nelle pestilenze dei secoli scorsi, accadde pure col terremoto del 1906 a San Francisco, che per ricchezza generata dalla Corsa all’Oro era città del vizio, della violenza, della corruzione. Oggi siamo all’inizio di una nuova era. Guardiamo sconfortati le nostre città deserte, ma vi scorgiamo pure una natura che rifiorisce, l’inquinamento quasi sparito: questa quarantena ci indurrà a ripensare il nostro rapporto con l’ambiente.

Ci eravamo quasi rassegnati alla lenta decadenza delle democrazie occidentali come la nostra e delle loro élite, sempre più fragili e meno funzionali in tempi di populismo e strapotere dei social. L’epidemia ci ha confermato i pregi delle società aperte, come la trasparenza indispensabile per rispondere a un’emergenza e coinvolgere i cittadini, ma pure le loro debolezze, nella difficoltà a far fronte comune mettendo da parte egoismi nazionalistici. Eppure siamo parte di un villaggio globale, dove all’improvviso, invocare muri e barriere per proteggersi dagli “altri”, come ha scritto in un’illuminante riflessione Marco Tarquinio, direttore di L’Avvenire ci ha fatto scoprire: che gli “altri” discriminati da muri e barriere possiamo essere noi.

“Questo shock del Coronavirus ha avuto come principale effetto positivo quello di ripensare il nostro atteggiamento nei confronti dell’attuale organizzazione sociale – osserva Davide Bennato, docente di Sociologia dei Media digitali -. Consideravamo ovvio procedere verso una società maggiormente individualizzata. Ci sembravano ‘naturali’ dal punto di vista economico un lavoro poco stabile, un welfare con limitate tutele dello Stato sociale sostituite da servizi a pagamento, una politica di ‘tutti contro tutti’ come espressione della contemporaneità. ‘Naturale’ considerare le professioni un modo di accumulare capitale, gli esperti un retaggio di sistemi di conoscenza superati, gli ‘altri’ come un ostacolo. L’epidemia ci ha svelato invece che la logica della stabilità lavorativa è importante (ad esempio per ricercatori e infermieri precari), che il welfare è una conquista da cui non recedere (sanità pubblica), che nella politica il dialogo democratico è necessario (la dialettica governo/opposizione), che la professionalità ha un’importante componente vocazionale (il sacrificio dei medici di Codogno), che gli esperti hanno un ruolo chiave di orientamento delle strategie (medici, virologi, epidemiologi). Il virus passerà ma la rivoluzione culturale che avrà innescato è il necessario ripensamento delle forme di vita civile che non potranno più essere ridotte a un individualismo rampante”.

È proprio questo radicale ripensamento del rapporto con gli altri il cambiamento più profondo, indispensabile in un Paese in cui troppi ancora praticano lo sciagurato sport del realizzarsi nella conflittualità, nel campanilismo, nel far perdere gli altri, quella che ho chiamato Sindrome del Palio di Siena. Mentre il sacrificio imposto con settimane di isolamento forzato ha un significato profondo che lascerà il segno, anche nella formazione dei giovani. Sacrificarsi per proteggere dal pericolo non tanto i singoli, in prevalenza individui a basso rischio, quanto la collettività nel suo insieme, soprattutto i più deboli e il sistema sanitario che li tutela, ci obbliga a comprendere che i problemi si affrontano sentendoci parte di una comunità, in cui la nostra sorte non può prescindere da quella di chi ci sta accanto.

È’ una sfida anche per le leadership in politica e nell’imprenditoria, saper gestire un’emergenza, fronteggiare incognite e contemporaneamente comunicare, abbinando a misure di precauzione messaggi rassicuranti e lungimiranti. Crisi come opportunità per rinnovarsi.  “I sistemi chiusi implodono e creano una conflittualità autodistruttiva. Anche le organizzazioni che non adottano un approccio aperto rischiano di richiudersi in se stesse e di replicare schemi non più adatti – osserva Stefano Schiavo formatore e consulente nell’ambito del marketing strategico, innovazione e organizzazione aziendale -. Ciò che ha permesso alle società contemporanee di prosperare e superare le tante sfide degli ultimi secoli è l’approccio scientifico: l’idea di ‘non sapere’ ha superato quella dello studio dei ‘testi sacri’ come fonte della conoscenza. Sapersi avvantaggiare dei momenti di difficoltà, dell’incertezza, delle perturbazioni non solo per resistere, ma per migliorare: è il concetto dell’antifragilità reso popolare da Nassim Nicholas Taleb, autore del celebre ‘Il cigno nero’”.

Una svolta, per le élite dunque ma anche per noi, nel rapporto con chi ci rappresenta. Perché in un’emergenza che riguarda la salute, malgrado il caos di informazioni su media e social non ci si affida al più astuto nel lanciare slogan online, a chi urla più forte, né agli “onesti inesperti”: si ascoltano i più competenti. È la fiducia nella scienza, nella conoscenza, il vero antidoto alle paure, come ha sottolineato il presidente Mattarella. Premiare non l’appartenenza ma la competenza, cosa che in Italia purtroppo non è la regola, è il modo migliore, per un Paese come per un’azienda, per guardar lontano, abbattere gli ostacoli e valorizzare il proprio patrimonio più prezioso: le risorse umane. Ricordando magari ancora una volta lo spirito di quel banchiere di origine italiana, che a San Francisco dopo il terremoto continuò a investire sul talento, basando sulla fiducia il proprio immenso contributo al progresso: Charlie Chaplin, Walt Disney, la costruzione dell’avveniristico Golden Gate Bridge, gli aiuti nel dopoguerra all’Italia col Piano Marshall, persino la nascita di Silicon Valley nel garage di due giovani che si chiamavano Hewlett e Packard hanno tutti potuto realizzarsi grazie ai soldi di Giannini. Che per sé, si scoprì, aveva tenuto meno di un centesimo di quel che avrebbe potuto avere. Puntiamo sui più giovani, per liberarci dalle macerie dell’egoismo, dell’invidia sociale, della perenne litigiosità. Impariamo a rischiare dando fiducia agli altri. E davvero, insieme, da questa crisi potremmo uscirne migliori.

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