Prendiamo il toro per le corna senza ulteriore indugio: io il lockdown l’ho passato “bene”.
Ora però bisogna spiegare il virgolettato. Quindi è opportuno, come primissima cosa, un disclaimer all’anglosassone: sono un introverso, tendenzialmente mutanghero e pensatore. Mi vien da dire anche un po’ autistico e disadattato, ma l’importante è rendersene conto. Lo sono sempre stato un INFP (Introvert, Intuitive, Feeler, Perceiver) anche se, suonando da quando sono bambino e avendo anche sfiorato il professionismo come musicista, non mi faccio troppi problemi a salire su un palco per fare l’idiota con un fez leopardato in testa.
In ogni caso, complici anche una serie di condizioni al contorno e non ultimo il fatto che non abito più in un angusto e fredd/orovente sottotetto milanese, durante la pausa forzata ho sostanzialmente seguito un canovaccio già stilato in precedenza: studiare, aggiornarmi e sperimentare vagando per decine di angoli oscuri del mio lavoro legato alla tecnologia e quindi in continua, velocissima, più-che-esponenziale evoluzione. Infatti, dopo aver passato buona parte della mia vita a scrivere codice – sono quaranta (!) anni che lo faccio e ancora mi piace e ditemi voi se questo non è essere un po’ disadattati – nel 2019 ho deciso di lasciare un lavoro ottimo, anche se lontano dalla mia natura esplorativa, per salire completamente a bordo dell’astronave FishboneCreek.
Facevo già parte dell’equipaggio, ma riuscivo – tristemente – a dedicare ad esso solo una piccola parte del mio tempo. Con questo cambio ed ora saldamente in plancia, il piano sarebbe stato quello di mettere strategicamente a catalogo le ultime evoluzioni della Realtà Virtuale – mio cavallo di battaglia dai primi anni ’90 – ben conscio della reazione a catena che ne sarebbe scaturita: videogiochi, dispositivi, interfacce, strumenti di sviluppo, linguaggi, arti visuali, musica, solo per citare i primi che ho toccato in questi mesi… una cascata di argomenti che una società nata come pool di autori televisivi e teatrali e successivamente evolutasi anche in direzioni tecnologiche e cross-mediali ha nel suo stesso codice genetico, mutante e poliedrico.In pratica il piano non è cambiato di una virgola. Ormai da anni FishboneCreek ha capito che non è più possibile scindere media e contenitori, forme e contenuti in categorie precise. La realtà è diventata liquida, le interfacce sono esse stesse informazione, i confini si spostano, i dispositivi che portiamo in tasca offrono potenzialità oltre ogni più rosea previsione rispetto a quando lasocietà vide la luce nel 2004. La narrazione non lineare, l’interattività pervasiva, gli user-generated contents e le dinamiche dei social network hanno cambiato completamente l’arte della narrazione.
È abbastanza ovvio quello che in questo scenario può rappresentare la Realtà Virtuale – o meglio parliamo di Mixed Reality, cappello per tutte le tecnologie immersive che ci portano dal“completamente reale” al “completamente virtuale” passando anche per Realtà Aumentata, video e immagini a 360 gradi e altre numerose contaminazioni.Tra le altre cose la Mixed Reality è attualmente la migliore approssimazione che abbiamo del teletrasporto di Star Trek. Anche questo è stato uno dei molti temi dei nostri brainstorming a distanza, visto che a causa del COVID19 buona parte della popolazione mondiale si è resa conto di buttare via tempo e soldi in spostamenti fisici non strettamente necessari.
Al netto del digital divide, se svolgiamo il nostro lavoro davanti a un computer le probabilità che in quel momento la nostra posizione sul globo terraqueo sia ininfluente sono già alte e diventano altissime grazie agli strumenti di comunicazione e telepresenza immersiva che da questa pandemia hanno avuto un impulso enorme. È triste che ci sia voluta una disgrazia di simili proporzioni per far nascere questa consapevolezza a livello globale, ma è andata così.
Per carità: non sono un talebano del virtuale. La comunicazione non verbale esiste, guardarsi nelle palle degli occhi e possibilmente bersi delle birre insieme è importante, ma non sempre e non per forza. Sia chiaro, non sono tutte rose e fiori con la MR. Ad esempio, nella cinematografia ormai si è affermato un linguaggio ben preciso e maturo fatto di inquadrature, tempi, luci, colori e movimenti di camera, con sintassi e semantica ben definite e grandi autori che, come con tutti i linguaggi umani, queste regole le conoscono così bene da potersi permettere di sfidarle e violarle in maniera geniale. Nel campo della Mixed Reality da questo punto di vista nulla è ancora deciso o standardizzato. La battaglia è ora, con i ben noti giganti che scommettono su una o un’altra tecnologia e visione. Facebook punta sulla VR e chi ha visto Ready Player One non può non farsi delle domande, Apple sembra essere interessata molto più al versante AR e Google sta nel mezzo e chi ha visto Iron Man non può non farsi delle domande e insomma, ecco, ci facciamo delle gran domande, il che è un bene.
Farsi la domanda giusta è il primo passo per trovare la risposta. Queste sono tecnologie storicamente etichettate come “soluzioni alla ricerca di un problema” fin da quando sono nate nei laboratori di NASA e Boeing decine di anni or sono. Ora sembra che di problemi da risolvere ce ne siano e che le tecnologie associate alle soluzioni siano arrivate ad un accettabile livello minimo. Lontani sono i tempi dei caschi da cinque chilogrammi e decine di migliaia di dollari che qualcuno ricorderà come lo fa ogni giorno la mia cervicale con me: ora abbiamo caschi – anzi, HMD, head mounted displays – come Oculus Quest che sono stand-alone, senza cavi tra i piedi e a prova di nausea cyberspaziale, a prezzi irrisori rispetto al passato. Esiamo solo all’inizio. La scommessa è quindi decodificare il linguaggio della Mixed Reality che sta nascendo globalmente proprio ora, con il giusto mix di cuore, pancia, razionalità e pragmatismo. Dobbiamo evitare il rischio di fuggire (o farci travolgere) da un treno che – questa volta letteralmente – sta uscendo dallo schermo. Come disse Alan Kay: dopo migliaia di anni di invenzioni che amplificano la parte fisica dell’uomo abbiamo creato il computer, che ne amplifica la mente.
Ecco, siamo arrivati a quel punto dell’evoluzione umana, con tutti i potenziali vantaggi, le responsabilità e i pericoli che ne conseguono. La chiave sarà la lettura liquida di simboli, narrazioni, contenuti, interfacce, ecosistemi ed usabilità, a prescindere dalle specifiche soluzioni tecnologiche e relativi player di mercato.
Da quel punto di vista ritengo che essermi imbarcato sull’astronave FishboneCreek, dove all’occorrenza si passa da Platone a Turing passando per il Bauhaus e le Lezioni Americane di Calvino, sia stata la migliore scelta possibile.Quindi, ecco spiegato il mio passare “bene” il lockdown.
Al netto della disgrazia – anche io come tutti ho avuto lutti dolorosi, ho seguito con apprensione le statistiche e tirato un sospiro di sollievo quando la curva ha iniziato ad appiattirsi – fosse per me farei un mese di lockdown all’anno. Non sono l’unico, l’ho letto e sentito anche da altre parti, sui social, nella mia bolla di amici come me introversi e un po’ autistici, quindi chiedo anticipatamente scusa a chi – sono tanti – lo ha passato assai peggio.
Ma davvero credo che ogni tanto sia necessario fermarsi a pensare e magari annoiarsi anche un po’.
Sviluppatore, scrittore, insegnante e musicista, Aaron Brancotti è un visionario dell’hi tech, pioniere dell’Interaction Design e di Tecnologie Immersive, conosciuto nel Cyberspazio con ilnome di Babele Dunnit. in passato è stato anche collaboratore di Nicholas Negroponte, oggi è partner e “facilitatore tecnologico” dello studio creativo FishboneCreek