Mentre scrivo, mi affaccio dalla finestra e vedo Bruxelles, la città che mi ha accolto dal 2014 come migrante economico assieme a decine di migliaia di altri italiani, anche se qui ci chiamano “expats” o “cervelli in fuga” per distinguerci dai migranti economici meno fortunati di noi.
Ringrazio il paese che mi ha accolto, l’Europa che mi ha regalato l’Erasmus, le lingue che mi hanno consentito di lavorare all’estero per salvarmi dalla crisi che ha reso troppo precari e umilianti i mestieri di insegnante e giornalista, che ho provato a fare in Italia senza riuscire a trasformarli in professioni stabili. E così mi sono ritrovato a fare l’ingegnere in una agenzia esecutiva della Commissione Europea, vivendo in Belgio l’esperienza della pandemia.
Il clima sociale che ho vissuto a Bruxelles è stato diametralmente opposto a quello che mi raggiungeva in Italia dai teleschermi: non c’è mai stato il divieto di passeggiare, solo l’obbligo di stare a distenza (ma ho visto pochissima gente per strada) non c’è mai stato l’obbligo di usare la mascherina (ma l’ho vista usare comunque nei luoghi più affollati) non c’è mai stato il divieto di fare sport. In breve: ho avuto la sensazione che il governo abbia trattato da adulti i cittadini, e per una profezia autoavverante la risposta è stata un comportamento adulto.
Qui a Bruxelles in tempi “previrali” ho potuto iniziare anche un percorso di studio post-universitario dove l’oggetto delle mie ricerche è la fiducia nella comunicazione scientifica, che mai come oggi si è rivelata fondamentale, perchè con l’esplosione della pandemia è passata dal singolare al plurale. È così che siamo stati raggiunti dalle comunicazioni scientifiche provenienti da amministrazioni pubbliche locali, regionali e nazionali, istituzioni sanitarie come OMS o l’ISS, singoli esperti o ricercatori che hanno condiviso le loro convinzioni teoriche, operatori sanitari sul fronte dell’emergenza che hanno condiviso le loro esperienze pratiche.
E non sempre tutte queste comunicazioni sono state concordi e convergenti, a conferma che la gestione di un’emergenza sanitaria è un esercizio molto complesso di amministrazione pubblica che non riguarda soltanto aspetti medico-sanitari, ma anche questioni economiche, logistiche, urbanistiche, sindacali, sociologiche, familiari, psicologiche, e perfino tecnologiche, tra app per smartphone, videocamere di sorveglianza e perfino in alcuni Paesi droni a quattro zampe sguinzagliati nei parchi per sollecitare i passanti a rispettare il distanziamento sociale.
Ragionare su tutto questo mi ha convinto che la sfida più grande che nei prossimi anni si troverà ad affrontare la comunicazione scientifica (e forse anche la società nel suo complesso) sarà la comunicazione dell’incertezza, che ha come suo corollario la comunicazione della complessità.
Attorno a me, nella piccola comunità di famiglie solidali che forma la mia rete di relazioni a Bruxelles, percepisco la convinzione che dalle ceneri di questa pandemia possano nascere rapporti nuovi con l’ambiente, il tempo, il lavoro, la salute, l’istruzione e le città dove abitiamo, una convinzione che poggia le sue fondamenta sulle solide elaborazioni prodotte da decenni di critica ecosostenibile al capitalismo, che ha già prodotto nuovi modelli di lavoro, di produzione di sviluppo economico, di trasporto pubblico, di consumo, di approvvigionamento e di distribuzione delle risorse.
Ma l’ottimismo della volontà va sempre bilanciato col pessimismo della ragione, e ragionando sulla nostra storia non mi aspetto che da questa esperienza l’umanità impari più cose di quelle che ha imparato dopo Auschwitz o Hiroshima, né mi aspetto che con la prospettiva della pandemia la comunità delle nazioni possa produrre slanci di cambiamento più coraggiosi di quelli realizzati con la prospettiva della mutua distruzione atomica che ha segnato la mia generazione.
In questo difficile equilibrio tra ragione e volontà, alla ricerca di un “realismo ottimista”, sento che anche senza illuderci su una situazione complicata da risolvere e complessa nelle sue dinamiche possiamo guardare verso un futuro dove ci sarà meno spazio per le banalizzazioni, le impersemplificazioni, gli slogan, i manifesti politici urlati in tre parole col punto esclamativo alla fine.
Questa esperienza ci ha reso più consapevoli di quanta fragilità e interdipendenza ci sia nella nostra condizione umana, e sono persuaso che i ragionamenti fatti da qui in avanti terranno in maggiore considerazione, anche se a livello inconscio o istintivo, l’esistenza di quello che vive fuori da noi, della complessa rete di relazioni che ci lega in maniera inestricabile a qualunque altro organismo vivente.
L’autoeducazione all’interdipendenza attraverso la riflessione sulle proprie esperienze individuali l’ho ritrovata in questi giorni in un discorso di Martin Luther King del Natale 1967, pochi mesi prima del suo assassinio (traduzione mia):
“Alla fine tutto si riduce a questo: ogni vita è interdipendente. Siamo tutti dentro una inestricabile rete di aiuto, legati alla stessa trama del destino. Quello che colpisce uno in modo diretto, colpisce tutti indirettamente. Siamo creati per vivere insieme in virtù della struttura interconnessa della realtà. Ti sei mai fermato a pensare che non puoi nemmeno uscire di casa per andare in ufficio senza essere dipendente dal mondo? Ti svegli, vai in bagno e un abitante delle isole del Pacifico ti ha passato la spugna. Cerchi la saponetta, e te la porge un francese. Vai in cucina a bere il caffè, e te lo versa un sudamericano. Oppure prendi del té, che ti viene versato da un cinese, o del cacao, che arriva da un africano dell’ovest. Poi prendi il tuo toast, servito da un contadino e da un panettiere che parlano inglese. E prima di aver finito la tua colazione, sei già dipendente da più della metà del mondo. Il nostro universo è fatto così, la sua natura è interconnessa. Non avremo pace sulla terra fino a quando non riconosceremo l’evidenza basilare della natura interconnessa della realtà”.
Con queste parole del reverendo King che danno speranza anche a mezzo secolo di distanza, voglio augurare a tutti noi che il passaggio attraverso questa pandemia possa segnare un punto di non ritorno verso una società più consapevole della complessità e dall’interdipendenza, pronta ad affrontare l’incertezza a viso aperto con lo studio, la conoscenza e la necessaria dose di creatività, senza lasciare spiragli all’ignoranza e alla sua figlia chiamata paura.
Abbiamo l’opportunità di passare dalla comunicazione veloce alla comunicazione efficace, dal tweet al libro, dalla polemica allo studio, dalla scienza aristocratica alla “Citizen Science” partecipata, dallo scontro sui social network all’incontro nelle comunità locali potenziato dalle tecnologie informatiche. E sono convinto che questa opportunità sapremo coglierla.
Carlo Gubitosa di Taranto, giornalista e attivista nel campo dell’ambiente e dei diritti umani, è IT Helpdesk Analyst -System Administrator INEA (Innovation And Network Executive Agency) agenzia della Commissione Europea a Bruxelles