Questo shock del Coronavirus ha avuto come principale effetto positivo quello di ripensare il nostro atteggiamento nei confronti dell’attuale organizzazione sociale. Consideravamo ovvio procedere verso una società maggiormente individualizzata. Ci sembravano ‘naturali’ dal punto di vista economico un lavoro poco stabile, un welfare con limitate tutele dello Stato sociale sostituite da servizi a pagamento, una politica di ‘tutti contro tutti’ come espressione della contemporaneità. ‘Naturale’ considerare le professioni un modo di accumulare capitale, gli esperti un retaggio di sistemi di conoscenza superati, gli ‘altri’ come un ostacolo.
L’epidemia ci ha svelato invece che la logica della stabilità lavorativa è importante (ad esempio per ricercatori e infermieri precari), che il welfare è una conquista da cui non recedere (sanità pubblica), che nella politica il dialogo democratico è necessario (la dialettica governo/opposizione), che la professionalità ha un’importante componente vocazionale (il sacrificio dei medici di Codogno), che gli esperti hanno un ruolo chiave di orientamento delle strategie (medici, virologi, epidemiologi). Il virus passerà ma la rivoluzione culturale che avrà innescato è il necessario ripensamento delle forme di vita civile che non potranno più essere ridotte a un individualismo rampante.
Quanto a questo periodo di quarantena, questo è un ottimo banco di prova per la nostra società: io ho imparato moltissimo e questo bagaglio me lo porterò appresso, un modo diverso di approccio ai problemi che resterà alla fine dell’emergenza. Io ad esempio da genitore di una bambina di 10 anni è docente di ragazzi di oltre 20 ho imparato molto dai giovani, dalla loro straordinaria capacità di adattamento. Patiscono ovviamente la distanza dagli amici, il mancato contatto con le persone a cui vogliono bene ma non hanno avuto dubbi sull’utilizzo diverso di strumenti come chat, la chiamata collettiva su Whatsapp, quell’attività da bricoleur nella capacità di mettere insieme cose diverse e cercare di dargli una una forma trasformare in opportunità quelli che sono dei limiti. Adattarsi non vuol dire però farsi passare bene tutto quello che sta accadendo ma semplicemente valorizzare, trasformare in opportunità quelle che sono in questo momento dei palesi limiti relazionali. Quindi secondo me questo è sicuramente una un ottimo banco di prova di noi come società.
Davide Bennato è docente di Sociologia dei Media Digitali all’Università di Catania.